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L’ernia diaframmatica


Manuel Felici  Autore: Manuel Felici, Medico Veterinario in Roma
Specialista in patologia e clinica degli animali d’affezione, perfezionato in cardiologia dei piccoli animali


Il diaframma è un setto muscolo-aponeurotico a forma di cupola che separa il torace dall’addome. Presenta due pilastri che si uniscono ventralmente, una banda carnosa periferica e tre iati (aperture): aortico, esofageo e quello per la vena cava caudale.

L’ernia diaframmatica è una dislocazione congenita o acquisita di organi nella cavità toracica attraverso una lacerazione del diaframma. È definita come “ernia falsa” in quanto i visceri erniati sono sprovvisti del sacco erniario e si trovano dislocati nella cavità pleurica (ernia diaframmatico-pleurica) o nel pericardio (ernia diaframmatico-pericardica).

La forma acquisita è tipicamente conseguenza di un forte trauma che l’animale ha subito; ad esempio può verificarsi al momento di una caduta dall’alto per la differenza pressoria tra addome e torace (gatto che accidentalmente cade da un terrazzo) o anche a distanza di giorni dall’evento traumatico per un progressivo aumento della soluzione di continuo (ferita) sul diaframma.

Alla visita clinica l’animale, quando l’ernia è acquisita e recente, presenta segni di stress respiratorio (es. respiro a bocca aperta, collo esteso come in fame d’aria, evidente contrazione della muscolatura addominale per compiere il movimento respiratorio del torace, etc.) e, in relazione alla quantità di organi erniati in torace, una diminuzione del volume dell’addome (“vita a vespa”).

Quando invece l’ernia è congenita, spesso i segni clinici non sono così evidenti per una serie di meccanismi compensatori che l’animale ha messo in atto durante la sua vita.

Per la diagnosi certa di ernia diaframmatica si rende imperativo l’ausilio della diagnostica per immagini: radiografie eventualmente anche previa somministrazione del mezzo di contrasto ed esame ecografico. Queste tecniche permetteranno appunto di identificare l’anomala dislocazione in torace di organi che invece devono essere all’interno dell’addome.

Il trattamento dell’ernia diaframmatica è di tipo chirurgico: dopo apertura del torace o dell’addome, il chirurgo dovrà valutare lo stato degli organi dislocati, manualmente riposizionarli nella loro corretta sede e chiudere l’apertura presente sul diaframma. Durante tutta la chirurgia l’aspetto anestesiologico è altrettanto fondamentale, non solo perché l’animale avrà ridotte capacità respiratorie, ma anche perché la respirazione avverrà con una ventilazione manuale. Correlata alla gravità e all’insorgenza dell’ernia diaframmatica sarà la prognosi post chirurgica e il rischio di edema polmonare per rinnovata espansione.


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Cos’è la filariosi?


Autore: Carmine Marano, Medico Veterinario in Roma
Specializzato in malattie infettive, profilassi e polizia veterinaria


È una malattia sostenuta da un verme chiamato filaria per la sua forma sottile e allungata. Il parassita viene trasmesso dalle zanzare ed è molto diffuso nelle centro-nord Italia dove questa malattia è endemica. Negli ultimi tempi è segnalata anche al sud e nelle isole coprendo quindi la quasi totalità della nazione.

Le filarie sono dei nematodi (vermi cilindrici) non bursati e in italia quelle presenti sono Dirofilaria repens, immitis, e Dipetalonema. Le infestazioni da Dirofilaria sono tipiche del cane, che è il principale reservoir, ma sono presenti anche in altri canidi e felidi ed è trasmissibile accidentalmente anche all’uomo, costituendo una zoonosi, più specificatamente un’antropozoonosi a trasmissione indiretta, mediante vettore.

Esistono due tipi di filariosi:

  • la filariosi cardio-polmonare (dirofilaria immitis e dipetalonema), presente ormai a livello endemico nel cane e nel gatto, ma meno comune nell’uomo, in quanto l’ambiente umano non è adatto allo sviluppo delle larve fino allo stato adulto e l’ospite intermedio, ossia la zanzara, tende comunque a preferire, per il proprio pasto, il sangue di altri animali anziché dell’uomo;
  • la filariosi sottocutanea (dirofilaria repens), meno conosciuta e con meno problematiche nel cane e nel gatto ma più comune, rispetto alla cardiopolmonare, nell’uomo, determinando lesioni nodulari di 1-2 centimetri di diametro nel punto di inoculazione.

La filaria adulta (“macrofilaria”) vive nella parte destra del cuore e nell’arteria polmonare degli animali colpiti e si riproduce dando vita a delle larve microscopiche, dette “microfilarie”, che restano in circolo nel sangue anche due anni.

Dirofilaria prende il nome da latino dirus (cattivo) e filum (filo).

La Dirofilaria immitis si localizza prevalentemente nelle arterie polmonari e ventricolo destro del cuore del cane, rendendosi responsabile della filariosi cardiopolmonare, mentre repens (dal latino “improvviso”) per lo più nei tessuti sottocutanei e fasce muscolari, dando la filariosi sottocutanea.

Gli artropodi che possono trasmettere la dirofiliaria sono più di 70 specie di zanzare della famiglia dei Culicidi, principalmente i generi culex, anopheles e aedes albopictus (zanzare tigre), che non è coinvolta solo nella trasmissione nel cane ma anche nell’uomo. Quest’ultima specie di zanzara è facilmente identificabile perchè si presenta con delle linee bianche sul corpo nero. Il genere più grande di zanzara è Culex e inizialmente si pensava potesse essere l’unica a trasmettere Dirofilaria, soprattutto la specie Culex pipiens.

I parassiti adulti, detti “macrofilarie”, mostrano uno spiccato dimorfismo sessuale, infatti il maschio presenta la coda spiraliforme, mentre nella femmina è arrotondata e l’apertura vulvare si trova subito dietro l’esofago. La Dirofilaria immitis ha delle fini striature in senso trasversale sul corpo e ha l’estremità encefalica arrotondata in entrambi i sessi. È piuttosto lunga: il maschio misura 12-20 cm, mentre la femmina 25-31 cm. La Dirofilaria repens presenta delle striature sulla cuticola sia in senso longitudinale che trasversale, con estremità encefalica arrotondata a ombrello e una lunghezza nel maschio di 5-7 cm, nella femmina di 6-17 cm.

Gli adulti di D. Immitis si localizzano, quindi, nelle arterie polmonari e nel ventricolo destro del cuore, ma sono state descritte anche localizzazioni erratiche. Si trovano da un numero di 3 fino a 50, raramente anche 100. Gli adulti e le larve di D. Repens, invece, si localizzano nel tessuto sottocutaneo e nelle fasce muscolari in numero esiguo di 2-10. Sono liberi di muoversi nel sottocute per poter raggiungere i siti d’elezione che sono: dorso, fianchi, arti o spazi intermuscolari.

Come si trasmette?

Quando una zanzara punge un cane infetto, insieme al sangue aspira anche alcune microfilarie, che in seguito può iniettare in un altro animale, tra cui anche un gatto, trasmettendogli la malattia.

Entrando nello specifico: le larve dallo stadio  L1 fino a L3 si sviluppano nel vettore, dallo stadio L4 fino alla forma adulta, nell’ospite definitivo. Il ciclo biologico delle due specie (immitis e repens) è sovrapponibile: gli adulti localizzati nella parte destra del cuore, dopo la fecondazione, rilasciano nel torrente circolatorio le larve L1, le “microfilarie”, che possono rimanere in circolo fino a 2 anni. Per potersi sviluppare, le microfilarie L1 necessitano di un ospite intermedio, un artropode (la zanzara), che funge da vettore biologico. Quest’ultima si infesta quando punge (ossia compie un pasto di sangue) un animale con microfilarie allo stadio L1 in circolo; nella zanzara le larve L1 evolvono in L2 e poi in L3, che è la forma larvale infestante, la quale si porta al labium (la parte piu craniale) dell’insetto pronta, tramite il nuovo pasto della zanzara (la puntura), a infestare l’ospite definitivo, il cane e il gatto. Nel derma le filarie permangono per diversi giorni e mutano in L4, raggiungono i capillari ematici, poi maturano in L5 e infine si portano al cuore, dove si svilupparenno gli adulti di Dirofilaria Immitis; dirofilaria repens, invece, permane nel sottocute.

Il numero di larve che sopravvive con l’inoculazione è del 50-100% nel cane, mentre del 25% nel gatto.

La prepatenza (il tempo che intercorre dall’infestazione e lo sviluppo degli adulti che producono  microfilarie) è lungo da 6 a 9 mesi per repens.

Quali sono i sintomi della filaria?

Nel cane i sintomi della filariosi sono riferibili all’insufficienza cardiaca; nel gatto, invece, riguardano principalmente i polmoni e si manifestano con difficoltà respiratoria e tosse (tanto che talvolta vengono scambiati per attacchi d’asma). Non mancano:

  • scarso appetito;
  • stanchezza cronica;
  • ascite ed edema degli arti;
  • dispnea;
  • abbattimento;
  • facile affaticabilità;
  • embolia polmonare;
  • sindrome della vena cava;
  • un altro sintomo possibile, di cui ancora non si è capito il meccanismo, è il vomito cronico intermittente.

Inoltre, le microfilarie circolanti possono dare danni renali da glomerulonefrite da immunocomplessi. Spesso è fatale nel cane, ma ancora di più nel gatto, dove anche un solo parassita può causare grave sintomatologia e morte improvvisa.

  1. repens è meno patogeno, data la sua localizzazione, e spesso non viene diagnosticata. I soggetti infestati possono presentare lesioni eczematose, ulcerazioni e noduli sottocutanei, che contengono adulti e microfilarie.

Come si diagnostica?

Per la diagnosi ci si avvale principalmente di un test specifico condotto sul sangue. Gli esami radiografici ed ecografici aiutano a stabilire la gravità della condizione.

La diagnosi può essere diretta, mediante la ricerca delle microfilarie, o indiretta, mediante la ricerca di anticorpi.

– Diagnosi diretta:

  • esame a fresco di una goccia di sangue;
  • concentrazione delle microfilarie in microtubuli da ematocrito;
  • metodo di knott (concentrazione delle microfilarie mediante centrifugazione);
  • difil test (concentrazione delle microfilarie mediante filtrazione su filtri millipore);
  • metodo della fosfatasi acida (mediante concentrazione e colorazione istochimica delle filarie).

Per la diagnosi differenziale di specie si utlizzano le caratteristiche morfometriche (lunghezza, larghezza, caratteristiche delle estremità craniali e caudali); nei casi dubbi si può utilizzare la PCR o colorazioni istochimiche per evidenziare la fosfatasi acida.

– Diagnosi indiretta:

esistono test sierologici che mediante ELISA, western blot e immunofluorescenza indiretta rilevano gli anticorpi e indicano se c’è stato contatto tra animale e filaria, ma non che il paziente sia necessariamente malato.

Nei casi di infestazioni occulte, in assenza di microfilarie, può essere utile l’uso di tecniche sierologiche assieme a diagnostica per immagini radiografiche ed ecocardiografiche per evidenziare gli adulti a livello cardiopolmonare.

 

È possibile la terapia per la filaria?

In medicina veterinaria abbiamo due approcci terapeutici e vengono effettuati soprattutto per D. Immitis: terapia “macrofilaricida” e terapia “microfilaricida”.

  • La macrofilaricida prevede l’uso di due molecole: melarsomina e tiacetarsamide, ma presenta scarsa efficacia e alta tossicità, per cui ha scarso impiego in quanto il rischio è alto e, data la localizzazione a livello cardiaco, il tromboembolismo secondario alla terapia può risultare anche fatale.
  • La microfilaricida prevede l’uso di lattoni macrociclici (ivermectina, moxidectina, selamectina e milbemicina) utilizzata sia per la filariosi cardiopolmonare che sottocutanea.

Come si fa la profilassi?

Previa un test diagnostico risultato negativo, la profilassi si effettua somministrando al cane, una volta al mese, un farmaco che uccide le microfilarie introdotte negli ultimi trenta giorni, prima cioè che si stabiliscano nel cuore. Alcuni prodotti ad uso topico (da mettere sul pelo) riducono il numero di punture da zanzare, riducendo ulteriormente il rischio di infestazione. Nelle zone in cui la filaria è diffusa è consigliabile sottoporre anche i gatti alla prevenzione, proprio perché in questa specie la malattia è molto più grave e difficile da curare.


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“Cherry Eye” nel cane: cos’è e come risolverlo


Francesca Calamusa Autore: Francesca Calamusa, Medico Veterinario in Roma


L’occhio del cane è diverso dal nostro in quanto, oltre ad avere una palpebra superiore ed una inferiore, ha anche una terza palpebra, ovvero una “membrana” formata da uno “scheletro interno” di cartilagine e rivestita esternamente dalla congiuntiva. Anatomicamente è situata nell’angolo nasale dell’occhio, tra palpebre e globo oculare, dove svolge un’azione di protezione della cornea: nel cane “sale passivamente” come conseguenza della retrazione volontaria del globo oculare nell’orbita e normalmente non è visibile. Alla base della terza palpebra è presente una ghiandola lacrimale che produce almeno il 35% della porzione acquosa del film lacrimale, il resto viene prodotto dalla ghiandola lacrimale orbitale.

Il “cherry eye” non è altro che il prolasso della ghiandola lacrimale della terza palpebra. Questa esce dalla propria sede naturale (prolassa), aumenta di dimensioni e si infiamma, presentandosi come una massa rossastra all’angolo nasale dell’occhio, molto simile a una ciliegia; da qui il nome “cherry eye”. L’estroflessione della ghiandola è legata all’indebolimento dei tessuti fibrosi che tengono nella corretta posizione la terza palpebra. È una patologia che interessa prevalentemente cani giovani (età media inferiore a due anni) ed è frequente in razze quali: Beagle, Cocker Spaniel, Cavalier King Charles Spaniel, Bulldog Inglese, Bulldog Francese, Mastino Napoletano, Boxer, Shar Pei, Pechinese, Lhassa-Apso, Basset Hound, Boston Terrier, Shitzu,

In genere è monolaterale, ma nel 20% dei casi si assiste al prolasso della ghiandola controlaterale in un periodo di tempo variabile, che può andare da pochi giorni a qualche mese.

Cause

In passato si riteneva che la causa scatenante fosse infiammatoria, ma oggi l’ipotesi più accreditata è la lassità congenita delle strutture legamentose della ghiandola stessa, oltre ad esserci una particolare predisposizione della patologia in razze brachicefaliche, caratterizzate dall’avere un muso corto e schiacciato.

Sintomi clinici

La ghiandola prolassata va incontro a fenomeni infiammatori, per i quali compare una masserella dapprima rosa poi sempre più rossa e infiammata nell’angolo destro dell’occhio. I sintomi clinici sono:

  • arrossamento oculare da congiuntivite;
  • abbondante lacrimazione o, al contrario, secchezza oculare e scarsa lacrimazione;
  • secrezioni anomale dall’occhio;
  • gonfiore attorno agli occhi.

Inoltre il cane ha spesso la tendenza a sfregarsi gli occhi con la zampa e a tenerli socchiusi. Si tratta essenzialmente di tentativi di ridurre l’irritazione che avvertono.

La diagnosi è molto semplice in quanto di norma è sufficiente il solo esame fisico.

Terapia

È molto importante intervenire tempestivamente perché, se il disturbo viene tralasciato, potrebbero insorgere complicazioni oculari di una certa serietà e persino danni permanenti. Bisogna assolutamente evitare di lasciare la ghiandola prolassata per parecchi mesi, perché ciò causa al suo interno dei cambiamenti che ne riducono irreversibilmente l’attività secernente (fibrosi del tessuto ghiandolare), rendendo più probabile l’insorgenza di cheratocongiuntivite secca.

Il trattamento risolutivo è chirurgico e consiste nel riposizionare la ghiandola nella sua sede naturale creando una tasca sulla superficie interna della terza palpebra e suturandovi all’interno la ghiandola. In preparazione alla chirurgia in genere si somministrano antibiotici topici e antinfiammatori. In passato, in caso di cherry eye si interveniva sempre rimuovendo la ghiandola estroflessa, ma ciò portava quasi sempre all’insorgenza di una severa secchezza oculare (cheratocongiuntivite secca) poiché la ghiandola produce le lacrime e ha il compito di mantenere umida la cornea. La terapia, quindi, si pone come scopo:

  • il ripristino delle funzionalità e dell’aspetto delle strutture coinvolte;
  • la riduzione/eliminazione delle secrezioni anomale dall’occhio;
  • la diminuzione dell’irritazione e delle lesioni a carico di cornea e congiuntiva;
  • il mantenimento/ripristino della produzione lacrimale della terza palpebra;
  • la riduzione del rischio di infezioni secondarie.

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Adottare un secondo cane: evitiamo gli errori


Luca ButiAutore: Luca Buti, Medico Veterinario in Roma


Decidere di inserire un secondo cane in famiglia, convivendo già con un pet, spesso è motivo di preoccupazione per i proprietari. Ma ecco alcune considerazioni che possono essere di aiuto.

Partiamo dal concetto di gerarchia: in materia di stabilizzazione di gerarchie, se lasciati liberi di decidere autonomamente, i cani sono di gran lunga superiori agli uomini. A parte il caso in cui si scelga di adottare un individuo della stessa razza, sesso, età e livello gerarchico del pet già residente nella nostra casa (uguale almeno in apparenza), se noi non interferiamo, i cani sanno organizzarsi tra loro in maniera molto veloce. Per non avere problemi, andrebbe innanzitutto scelto un soggetto con caratteristiche fisico/caratteriali opposte al nostro pet.

Meglio scegliere, inizialmente, un territorio neutro per le “presentazioni”; ad esempio, un parco sconosciuto a entrambi, in modo tale che nessuno dei due sia motivato a manifestare diritti di possesso su nulla. Lasciamo che i nostri amici siano liberi di correre, di fare i cani, giocare, rotolarsi, etc. Consideriamo assolutamente naturale che ogni tanto qualcuno dei due assuma degli atteggiamenti di dominanza o emetta dei ringhi verso l’altro; succede in genere quando l’altro si concede comportamenti “fuori dalle righe”. Interveniamo il meno possibile, in modo da non punire il presunto aggressore e quindi conferire un rango maggiore all’altro. Normalmente, i confronti gerarchici, in assenza di interferenze umane e in territorio neutro, sono essenzialmente mimetici; vale a dire che, nonostante a noi sembrino a volte anche molto violenti, raramente esitano in una qualche lesione dei contendenti. Gradualmente poi passeremo dal territorio neutro alla nostra casa e lo faremo quando, dopo diversi incontri, le misurazioni gerarchiche saranno scomparse.

Una volta in casa, poi, un errore che spesso commettiamo (e che va evitato) è quello di ritenere che il primo cane residente sia di per sé dominante sull’altro; questo ci porta ad attribuirgli un rango maggiore e spesso determina l’insorgenza di problemi relazionali con il nuovo arrivato. Di solito, noi umani riteniamo i soggetti anziani più autorevoli, i cani non necessariamente. Una volta che entrambi i nostri pet si considerano residenti, va poi stabilito l’ordine gerarchico tra loro e in questo il più giovane potrebbe anche avere la meglio; dobbiamo riconoscerlo e ammetterlo.

Ricapitolando, la progressività negli incontri, la minore interferenza possibile da parte nostra e, soprattutto, la consapevolezza che i nostri amici siano perfettamente in grado di autogestire i rapporti tra loro, ci condurranno verso una pacifica e appagante convivenza.


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GDV: dilatazione\ torsione gastrica. Sintomi e trattamento


Francesca Calamusa  Autore: di Francesca Calamusa, Medico Veterinario in Roma


La sindrome da dilatazione-torsione gastrica, nota come GDV (Gastric Dilation/Volvulus) è una gravissima patologia che frequentemente colpisce i cani e che, se non riconosciuta tempestivamente e trattata entro poche ore, può avere esiti letali (35-50%). Come si evince dal nome, è una patologia a carico dello stomaco che ne determina la dilatazione eccessiva per la presenza di gas o liquidi al suo interno e spesso accompagnata da torsione dell’organo su se stesso. Se lo stomaco si torce a sufficienza (rotazione di 180°-360°) lo svuotamento gastrico è ostruito e si instaura una dilatazione gassosa progressiva. Questa massiccia distensione gastrica comporterà la contemporanea occlusione dei vasi sanguigni con conseguente diminuzione di apporto di sangue fino alla necrosi della parete dello stomaco. Inoltre la milza, essendo adesa alla parete dello stomaco, ruoterà con esso andando incontro a congestione e aumento di volume con conseguente aggravarsi del quadro clinico.

Fattori predisponenti e cause scatenanti

Non si conosce la causa esatta che scatena la patologia, ma vi sono sicuramente dei fattori predisponenti quali: predisposizione di razza legata alla mole dell’animale, in quanto si osserva principalmente nei cani di taglia grande e medio-grandi a torace profondo. Tra questi, le razze maggiormente esposte sono: Alano, Pastore Tedesco, Terranova, Dobermann, Mastino Napoletano, San Bernardo, Setter Irlandese, Dogue de Boedeaux, Pastore Maremmano e relativi incroci. Tra i cani di media taglia si è riportata, invece, una maggiore incidenza negli Shar-pei e nel Basset Hound, mentre i cani di taglia piccola raramente sono colpiti da questa patologia. Altro fattore predisponente è sicuramente l’età avanzata per la maggiore lassità dei legamenti che mantengono in posizione lo stomaco.

Tra le cause scatenati vi sono:

  • ingestione di pasti troppo voluminosi o cani che mangiano troppo velocemente e con voracità;
  • somministrazione giornaliera di un unico pasto;
  • attività fisica subito dopo i pasti che creano un movimento che interessa lo stomaco.
  • diete con alimenti poco digeribili e grossolani;

Come prevenire

Molto importante è la prevenzione per ridurre il più possibile l’insorgenza di questa patologia mettendo in atto alcuni accorgimenti:

  • dividere il pasto giornaliero in più porzioni, anche tre se necessario (in relazione allo stato funzionale del soggetto e l’età). La somministrazione di un pasto unico comporta un eccessivo carico per lo stomaco, che passa la gran parte del tempo vuoto e a dimensioni ridotte per poi riempirsi di colpo e dilatarsi con tutta la dose giornaliera. Suddividendo in due o più pasti, l’organo di dilata periodicamente con una distensione moderata proporzionale alla razione. A questo è collegata anche la produzione di acidi da parte dell’organismo, che è ben maggiore per le grosse quantità di alimento e quindi comporta irritazione, cattive fermentazioni (ulteriore gas) e difficoltà di svuotamento dell’organo. Minore sarà la quantità di cibo assunto minore sarà anche la quantità di acqua che il soggetto ingerirà subito dopo, lo stomaco sarà dunque meno dilatato e meno appesantito e soggetto a minori spostamenti;
  • i pasti devono essere regolari;
  • impedire l’attività fisica poco prima e circa due ore dopo il pasto. Con ciò si intendono anche la discesa delle scale e tutte quelle posture che mettono la testa in basso rispetto al resto del corpo, proprio perché questa posizione favorisce la rotazione;
  • limitare tutti gli stress al momento del pasto, in quanto un cane che mangia con poca tranquillità tende a essere più vorace e ad assumere molta aria (aerofagia).
  • limitare la velocità d’assunzione del cibo sia per appetito (il cane che mangia una sola volta al giorno) sia per voracità (ciotole apposite che aumentano il tempo di consumazione del pasto);
  • evitare alimenti contenenti troppi grassi e somministrare alimenti iperdigeribili per favorire lo svuotamento dello stomaco.
  • gli alimenti non devono essere conservati per periodi troppo lunghi e in condizioni inadeguate.

Come riconoscere la GDV

I segni clinici possono essere molteplici:

  • irrequietezza;
  • salivazione;
  • conati di vomito improduttivi;
  • sete intensa;
  • marcata distensione addominale anteriore;
  • il cane può lamentarsi quando viene esercitata pressione sul suo addome, appare letargico, ovviamente a disagio, cammina in modo rigido, tiene la testa abbassata.

Data la gravità della patologia, qualora vi sia anche il minimo sospetto di dilatazione/torsione gastrica, è di fondamentale importanza recarsi subito presso una struttura veterinaria che intervenga tempestivamente.

Diagnosi

È il più delle volte clinica con conferma radiografica.

Trattamento

Per prima cosa si procede con una terapia medica volta a stabilizzare l’animale in fase di shock, con somministrazione di fluidi, sedazione dell’animale, per poi procedere alla decompressione dello stomaco, mediante l’utilizzo di una sonda oro-gastrica e lavaggio dello stomaco con acqua tiepida per rimuoverne il contenuto e ripristinare i valori normali a livello del sangue e cardiocircolatori.

Una volta stabilizzato l’animale, si può procedere chirurgicamente per riposizionare lo stomaco, se in torsione, ed eseguire una gastropessi, ovvero adesione dello stomaco alla parete addominale per prevenire recidive.

Una gastropessi preventiva può essere effettuata in soggetti giovani appartenenti a razze particolarmente predisposte al fine di prevenirne il rischio di insorgenza.


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Leishmaniosi nel cane: cos’è e come prevenirla


Francesca Calamusa Autore: di Francesca Calamusa, Medico Veterinario in Roma


Spesso, soprattutto negli ultimi anni, si sente parlare di leishmaniosi. Purtroppo, ancora, non tutti i proprietari dei nostri amici a quattro zampe, sono a conoscenza della gravità della malattia e dell’importanza della sua prevenzione.

La leishmaniosi è una malattia parassitaria che colpisce prevalentemente il cane e i roditori, che ne rappresentano il serbatoio principale, mentre il gatto e altri mammiferi costituiscono ospiti accidentali. È una zoonosi, ovvero una malattia trasmissibile all’uomo, ma il contagio diretto da cane a uomo è assolutamente escluso, in quanto l’unico modo per essere infettati dal parassita è attraverso la puntura dell’insetto volante. Fortunatamente, però, la malattia nell’uomo è meno grave, anche grazie alla capacità della medicina di curarla attraverso farmaci che consentono la completa e totale guarigione.

Nel cane, invece, è una malattia molto grave, spesso mortale, ad andamento il più delle volte cronico, soprattutto quando non si manifesta in modo eclatante, il che la rende di difficile diagnosi. Inoltre, non essendoci un farmaco capace di eliminare completamente il parassita, questo rimane infettante e presente all’interno dell’organismo del cane per tutta la sua vita. Da qui l’importanza di cercare di prevenirne l’infezione.

La malattia è causata da un protozoo, Leishmania infantum, che si trasmette al cane attraverso la puntura di un insetto ematofago, il flebotomo o pappatacio, simile ad una zanzara, molto piccolo e silenzioso durante il volo, che si distingue per una peluria giallastra sul corpo. Quando il flebotomo punge un animale infetto per cibarsi, ingerendo il sangue, assume il parassita leishmania, che si moltiplica al suo interno (impiega dai 4 ai 20 giorno per diventare infestante) e si deposita nell’apparato buccale del flebotomo pronto per reinfettare altri animali con un successivo pasto di sangue. Una volta trasmessa la Leishmania all’interno del circolo sanguigno, questa viene inglobata dai macrofagi e da altre cellule del sistema immunitario, all’interno delle quali il parassita si replica e ne causa la rottura con liberazione di altre forme larvali che libere nel torrente sanguigno, sono pronte, attraverso il successivo pasto di sangue di un altro flebotomo, a cominciare un altro ciclo.

Come si manifesta

Purtroppo è una malattia ormai presente in tutta Italia. Prima gli animali infetti erano dislocati solo in zone endemiche del sud e centro Italia e in ambienti rurali e costieri delle isole; oggi con l’abitudine agli spostamenti insieme ai propri pet, ma ancor di più la costante migrazione di cani randagi provenienti dai canili di Grecia e Spagna e dalle nostre regioni del meridione e i cambiamenti climatici, hanno fatto sì che ormai la malattia si sia distribuita molto equamente in tutta la penisola.

Essendo insetti ematofagi notturni, iniziano la loro attività quando fa buio, dal crepuscolo all’alba, quando le temperature variano da 15° ai 25°, con un periodo di maggiore densità che va da Maggio a Ottobre/Novembre a seconda dell’andamento stagionale e delle zone.

Nel cane la leishmaniosi si presenta sostanzialmente come una malattia generalizzata (detta anche forma viscero-cutanea) che si manifesta in modo differente a seconda della risposta immunitaria del soggetto colpito, motivo per il quale spesso vi sono animali che, nonostante abbiano contratto la malattia, rimangono asintomatici anche per tutta la loro vita. Inoltre, presenta un periodo di incubazione che va da alcuni mesi fino anche a 4-6 anni e per questo spesso complicata da diagnosticare.

Essendo un parassita che penetra nel circolo ematico del cane, questo può raggiungere diverse strutture dell’organismo, come linfonodi, derma, macrofagi e monociti di milza e fegato, midollo osseo e reni. Da qui il motivo per il quale spesso risulta difficile da diagnosticare data l’a-specificità dei sintomi clinici che possono andare da lesioni cutanee di vario tipo a forme viscerali a seconda degli organi colpiti.

Spesso i motivi più frequenti per i quali si richiede un consulto veterinario sono manifestazioni cutanee quali:

  • dermatite con pelle secca e screpolature tipo forfora;
  • perdita di pelo con zone alopeciche soprattutto localizzate a zampe, muso (regione intorno agli occhi che da un aspetto caratteristico di “faces da vecchio” e dorso del naso e testa) e orecchie;
  • ipercheratosi (ispessimento cutaneo) dei cuscinetti plantari e della cute del naso;
  • noduli sottocutanei;
  • forme ulcerative che si manifestano soprattutto a livello delle articolazioni (gomito, ginocchio, carpo, tarso) e prominenze ossee, come a livello delle giunzioni muco cutanee, tartufo, cuscinetti plantari e estremità dei padiglioni auricolari;
  • crescita eccessiva delle unghie (onicogrifosi).

A questi si aggiungono anche lesioni oculari quali:

  • blefariti;
  • congiuntiviti;
  • cheratocongiuntiviti;
  • uveiti anteriori.

Altri sintomi molto comuni sono:

  • la perdita di peso nonostante l’appetito sia conservato, oppure inappetenza e progressivo dimagramento;
  • sintomi gastro-enterici quali vomito, diarrea;
  • a volte febbre intermittente;
  • poliartrite con zoppia;
  • perdita di sangue dal naso (epistassi), dovuta ad un abbassamento del numero di piastrine, anemia.

Essendo coinvolto il sistema immunitario oltre a presentarsi queste manifestazioni cutanee, vi è la forma viscerale della leishmaniosi che può manifestarsi anche dopo anni dall’infestazione dell’animale con sintomatologia specifica degli organi colpiti come:

  • aumento dei linfonodi esplorabili (soprattutto prescapolari, sottomandibolari, poplitei)
  • ingrossamento di fegato e milza;
  • poliuria (aumento della diuresi) e polidipsia (aumento della sete) ed ematuria (sangue nelle urine) dovute ad una glomerulonefrite, ovvero ad un processo infiammatorio a carico del glomerulo renale per deposito di immunocomplessi che a lungo andare provoca una insufficienza renale cornica, che rappresenta la principale causa di morte dei cani malati.

L’importanza della prevenzione

Vista la complessità e gravità della malattia e soprattutto, non essendoci attualmente farmaci in grado di eliminare completamente dall’organismo i microrganismi responsabili della leishmaniosi, la prevenzione diviene l’arma fondamentale per cercare di prevenire l’infestazione. La cura è mirata a gestire i sintomi e tenere sotto controllo la malattia limitandone gli effetti collaterali, l’insorgenza delle recidive, stimolare il ripristino del sistema immunitario cellulo-mediato, limitare il tasso di infettività di altri flebotomi. Anche in seguito alla remissione dei sintomi, il cane dovrà essere sempre e comunque monitorato a intervalli regolari (ogni sei mesi circa) per valutare lo stato immunitario.

Purtroppo le recidive sono frequenti e quando la malattia si ripresenta, risulta sempre più refrattaria alle terapie.

Per prevenire la leishmaniosi è importante ridurre al minimo la possibilità di puntura da parte dei flebotomi. Per farlo, poiché esistono in commercio numerosi prodotti antiparassitari per cani, è importante accertarsi che sul foglietto illustrativo sia indicato anche l’effetto repellente nei confronti dei flebotomi e l’attività di riduzione del rischio di trasmissione di leishmaniosi. Utilizzare, quindi, spray repellenti per una protezione immediata e di breve durata, prima della passeggiata serale o del mattino e ogni volta che ci si trova in condizioni di possibile contatto con i flebotomi, assieme sempre a collare e/o spot on repellenti. A tal proposito l’olio di neem rappresenta un ottimo antiparassitario naturale, senza nessun tipo di additivo chimico e uno tra i migliori repellenti in assoluto nei confronti di flebotomi, pappataci e zanzare, responsabili nei cani della leishmaniosi e di altre gravi malattie. Inoltre, si consiglia di ricoverare gli animali durante la notte, applicare alle finestre zanzariere dalle maglie fitte; utilizzare insetticidi ambientali per uso domestico.

Ad oggi si è fatto un passo in più circa la possibilità di effettuare una buona prevenzione della malattia con l’immissione sul mercato di un nuovo vaccino in grado di fornire un’ulteriore barriera protettiva attorno al cane per evitare il contatto con il flebotomo e che, rispetto al precedente, ha rivelato avere meno effetti collaterali ed essere, quindi, più sicuro. Per verificare la presenza del parassita si possono utilizzare esami specifici diretti o indiretti, ma anche esami rapidi e particolarmente semplici e affidabili, per la valutazione della presenza di anticorpi, utili per fare una prima valutazione da approfondire poi con altri test.

In conclusione, è molto importante la prevenzione per salvaguardare i nostri amici a quattro zampe da questa grave malattia e sottoporli a controlli periodici che ci permettono di ridurre il rischio di insorgenza della malattia e il monitoraggio in quei soggetti già esposti, così da prevenire il progredire e quindi l’aggravarsi della patologia.


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Sindrome respiratoria
brachicefalica


Autore: Francesca Calamusa, Medico Veterinario in Roma


Le razze cosiddette brachicefaliche (ovvero con il “muso schiacciato”) sono quelle in cui purtroppo, negli anni, un’estrema selezione genetica ha privilegiato l’aspetto estetico a quello funzionale, causando come conseguenza della loro particolare morfologia, problemi respiratori spesso molto gravi e riconosciuti sotto il nome di “Sindrome Brachicefalica Canina” o “Sindrome Ostruttiva delle vie Aeree Superiori (BAOS)”. Razze quali Bullldog Inglese, Francese o Carlino negli ultimi anni sono diventati molto popolari in Italia, questo grazie al loro carattere allegro, alla loro energia e alla loro predisposizione al gioco, che li rende dei meravigliosi compagni di vita. Il grande interesse, però, nei loro confronti è difficilmente associato alla consapevolezza dei problemi che questi animali si portano dietro, non solo di tipo respiratorio, ma anche su altri organi. Le razze sopracitate, tra le più famose, non sono le uniche ad essere interessate da questa problematica; tra le principali razze brachicefaliche vi sono: Boston Terrier, Pechinese, Cavalier King Charles, Shar-pei e Shitzu e più raramente soggetti di taglia grande come il Boxer e Bull Mastiff.

Questa particolare conformazione della testa, più larga che lunga, provoca anomalie anatomiche multiple quali:

  • narici stenotiche, più strette del normale, tanto che il passaggio dell’aria è ostacolato;
  • palato molle allungato, che separa la bocca dalle vie respiratorie, è troppo lungo rispetto alle dimensioni della cavità orale e finisce nella gola, creando rumori respiratori anomali;
  • ipoplasia tracheale, ovvero con conformazione e diametro anomali, predisponendo a infezioni ricorrenti delle vie respiratorie.

 

Fenomeni degenerativi primari e secondari

Conseguenza di queste malformazioni sono fenomeni degenerativi dovuti allo sforzo respiratorio che l’animale deve compiere, in quanto l’aria al passaggio inspiratorio non è lineare e crea una turbolenza contro le pareti delle mucose che, a lungo andare, si infiammano ingrossandosi o perdendo di tono, aggravando ancora di più il quadro clinico.
Fenomeni secondari sono, quindi:

  • collasso tracheale;
  • collasso laringeo;
  • eversione dei sacculi laringei, che sono delle piccole porzioni anatomiche posti ai lati della laringe che si infiammano e occludono ulteriormente il lume della gola.

I cani con sindrome brachicefalica sono, inoltre, più frequentemente soggetti a problemi gastrointestinali quali: rigurgito, vomito, scialorrea, meteorismo, difficoltà nella deglutizione con conseguente rigurgito durante o subito dopo il pasto, come conseguenza delle aumentate pressioni intratoraciche prodotte in risposta a un’ostruzione delle vie aeree superiori, oppure come conseguenza di una patologia gastroenterica primaria, come quadri di esofagite da reflusso, ernie iatali e gastroduodeniti di natura variabile.

Infine, lo sforzo respiratorio ha anche un impatto negativo sul cuore che dovrà svolgere un lavoro maggiore per il tentativo di respirare. A peggiorare questa condizione sono le frequenti apnee notturne a cui sono soggetti questi animali, dovute all’ispessimento della base della lingua e della parte finale del palato molle che possono occludere le prime vie aeree, soprattutto quando il cane dorme a bocca chiusa, e quindi, in seguito allo sforzo respiratorio, possono provocare un aumento irregolare della pressione arteriosa.

I sintomi clinici

I principali sintomi clinici che si possono riscontrare, in basa alla gravità della patologia sono:

  • intolleranza all’esercizio fisico ed al movimento, soprattutto nei periodi caldo-umidi;
  • russare notturno;
  • respiro rumoroso, russante;
  • maggiore predisposizione al “colpo di calore”, soprattutto nei mesi estivi per inefficienza degli scambi respiratori;
  • starnuto inverso molto frequente, condizione tipica di questi cani dovuta alla presenza di un palato molle più lungo e iperplastico che causa una irritazione della gola;
  • cianosi;
  • sincopi, ovvero perdita improvvisa della coscienza con perdita del tono posturale, di breve durata e risveglio spontaneo.

Diagnosi

La diagnosi si basa principalmente sulla predisposizione di razza e sulla valutazione dei sintomi clinici, sulla presenza di narici stenotiche che sono, in genere, bilateralmente simmetriche e le pieghe alari che possono essere aspirate verso l’interno durante l’inspirazione, e quindi peggiorare l’ostruzione del flusso d’aria. Inoltre, una valutazione radiografica della trachea permette di valutare l’estensione e la gravità delle alterazioni, per la possibile presenza di un lume tracheale molto ristretto rispetto alla norma.

Molto importante è un esame endoscopico completo delle vie respiratorie che consente di definire esattamente quali delle sopracitate ostruzioni siano presenti e quantificarne la gravità, in modo da pianificare con esattezza i possibili interventi chirurgici correttivi, volti a migliorare il passaggio di aria attraverso le vie aeree superiori e di ridurre al minimo i fattori che aggravano i segni clinici.

Al fine di prevenire i fenomeni degenerativi prima citati è molto importante la prevenzione e far valutare fin da cucciolo il proprio amico a quattro zampe dal veterinario al fine di intervenire il prima possibile per ridurre la possibilità di complicanze.

La correzione chirurgica delle narici stenotiche (rinoplastica) può essere effettuata già a 3-4 mesi di età o comunque entro l’hanno di vita, cosi come l’asportazione della porzione di palato molle in eccesso (stafilectomia), in quanto la patologia peggiora con l’avanzare del tempo, soprattutto se le prime vie aeree non sono pervie.


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“Cat Scratch Disease”: la malattia da graffio del gatto


Autore: Carmine Marano, Medico Veterinario in Roma
Specializzato in malattie infettive, profilassi e polizia veterinaria


La malattia da graffio del gatto (Cat Scratch Disease, CSD) è una zoonosi emergente e ubiquitaria. Nell’uomo è nota dal 1930 ed è stata descritta per la prima volta nel 1950 da Debrè. Dapprima si è sospettato che l’agente eziologico, e quindi la causa, potesse essere un virus; poi una Clamidia, poi un batterio, ma solo dopo gli anni ’90 è stata definitivamente identificata quale agente eziologico della malattia la Bartonella henselae. Più recentemente un’altra Bartonella, B. clarridgeiae, è stata pure segnalata quale responsabile di casi di CSD nell’uomo. Si tratta di una patologia emergente: negli esseri umani immunocompetenti, la B. Henselae è responsabile della “malattia da graffio del gatto’’. Il più delle volte è benigna e autolimitante, tuttavia nei soggetti immunocompromessi può avere un decorso grave ed essere fatale se non adeguatamente trattata con specifica terapia antibiotica (forma atipica).

Le cause della malattia

Nel gatto l’infezione decorre abitualmente in forma pressoché asintomatica: batteriemie prolungate (di parecchi mesi o anni) e ricorrenti anche in presenza di una risposta immunitaria rilevabile. La pulce svolge un ruolo centrale nella diffusione dell’infezione tra i gatti, anche se, recentemente, è stato dimostrato che zecche, quali Ixodes pacificus ed Ixodes ricinus, possono albergare il microrganismo e quindi essere potenzialmente in grado di trasmetterlo all’ospite, uomo compreso, attraverso il pasto di sangue. Tuttavia, la zecca non ha un ruolo centrale come quello della pulce.

Come si trasmette

La trasmissione dell’infezione dal gatto all’uomo avviene solitamente attraverso il graffio o il morso ed è legata alla presenza del batterio sugli artigli e/o nel cavo orale. La Bartonella henselae può contaminare gli artigli del gatto mediante il loro contatto con feci di pulci infette presenti sulla cute (nelle quali il batterio si mantiene vitale fino a 9 giorni). Il batterio, inoltre, può contaminare direttamente la cavità orale, sia attraverso sanguinamenti conseguenti a patologie gengivali e/o dentali, sia indirettamente mediante il leccamento della cute contaminata o degli artigli.

L’infezione interessa principalmente il gatto e l’uomo, anche se Bartonelle sono state isolate da cani, conigli, roditori e ruminanti, ma con sintomi aspecifici e con pareri discordanti in merito.

Il gatto non manifesta sintomi specifici di malattia, anche se alcuni autori hanno rilevato episodi di linfoadenite (infezione dei linfonodi) associata a un transitorio rialzo febbrile. Dalla letteratura emerge che il rischio di infezione per i gatti di strada è circa doppio rispetto a quelli di proprietà. Gli animali infetti vanno trattati, oltre che con antiparassitario, anche per la Bartonella, poiché il batterio si trova nel sangue, quindi anche eliminando le pulci non è possibile escluderne la presenza.

Lo sviluppo della malattia

Le Bartonella spp sono microrganismi esigenti che possono persistere nel sangue dell’ospite anche per anni, legandosi e invadendo diversi tipi di cellule ospiti: eritrociti (globuli rossi) e cellule endoteliali. Entra nella circolazione sanguigna dando batteriemia intra-eritrocitaria di lunga durata. Può infettare le cellule progenitrici del midollo osseo contribuendo alla continua infezione degli eritrociti, e quindi del sangue.

Generalmente l’infezione è asintomatica, ma in gatti infettati sperimentalmente con B.henselae e B. clarridgeiae si è notato un’infiammazione focale del miocardio (la parete muscolare del cuore) e, all’esame istopatologico (dopo la morte dell’animale), si è visto che le lesioni possono includere iperplasia del linfonodo periferico, iperplasia follicolare splenica, colangite/pericolangite linfocitica, epatite linfocitaria, nefrite interstiziale linfocitica.

Nell’uomo sono note due forme cliniche della malattia: la forma tipica, che è la più comune, e la forma atipica.

– Forma tipica

È la forma clinica più frequente di CSD, che sembra privilegiare i soggetti giovani (bambini e ragazzi, per una questione comportamentale: giocano col gatto, lo abbracciano, sono più esposti ai graffi sul viso, braccia, ecc.). È caratterizzata da una linfoadenopatia (ingrossamento dei linfonodi) superficiale localizzata in sede ascellare o nella regione che drena la lesione cutanea provocata dal graffio del gatto. Il periodo di incubazione è di 3-21 giorni con una media di 12 giorni. La linfoadenopatia regredisce spontaneamente entro 2-6 mesi. Nel 15-20 % dei casi i linfonodi vanno incontro a suppurazione e fistolizzazione cutanea (esterna). Tale quadro si accompagna talvolta a febbricola, rash fugace, eritemato-papuloso o eritemato-nodoso, astenia, anoressia, malessere, cefalea, faringodinia, artralgie. Gli esami di laboratorio indicano soltanto una reazione flogistica aspecifica (infiammazione), non obbligatoria, a volte associata a modesta leucocitosi neutrofila (aumento del numero di globuli bianchi), aumento della VES (velocità di eritrosedimentazione) e piastrinosi (aumento del numero delle piastrine).

La diagnosi sierologica con immunofluorescenza indiretta (IFA) consente (per positività > di 1:64 per IgG e IgM) di ottenere una diagnosi di quasi certezza di infezione da Bartonella.

– Forma atipica

È la forma più grave e non è tuttavia infrequente (circa il 5-14% di tutte le CSD). Si tratta di una forma sistemica complicata a carattere granulomatoso, soprattutto a carico dei parenchimi (fegato, milza, linfonodi del mediastino, ecc), che può assumere particolare gravità nei pazienti immunocompromessi (pazienti HIV-positivi, pazienti sottoposti a trapianto di organo solido o a terapie anti-neoplastiche, ecc.). Una sempre maggior percentuale di casi (in particolare in soggetti immunocompromessi) può presentarsi con manifestazioni che interessano singoli apparati come: SNC (encefalite, paralisi del faciale), polmone (polmonite atipica), cuore (endocardite), osso (lesioni osteolitiche), occhio (sindrome oculoghiandolare di Parinaud), cute (eritema nodoso o marginato) oppure con sindrome similmononucleosica o ancora solo con febbre persistente di natura da determinare.

La terapia

Nel paziente immunocompetente, nelle forme asintomatiche e lievi di CSD non è indispensabile ricorrere alla terapia antibiotica (che non è peraltro in grado di modificare l’andamento della malattia). Si fa una terapia sintomatologica, antinfiammatoria e antidolorifica.

Nel paziente immunodepresso è necessario il trattamento antibiotico. Possono inoltre essere impiegati antiinfiammatori, mentre sono da evitare gli steroidi che possono favorire la fistolizzazione.

Gli antibiotici utilizzati sono:

– associazione rifampicina e doxiciclina;

– eritromicina.

La diagnosi

Nell’uomo il sospetto clinico (anamnesi) è accompagnato da test sierologico (immunofluorescenza indiretta). La messa in evidenza del microrganismo nei pazienti con CSD con metodi tradizionali (coltura) è spesso problematica per la presenza di pochi microrganismi o addirittura per la loro assenza nei linfonodi al momento del prelievo del campione (biopsia, pus). Possibili trattamenti antibiotici empirici possono favorire la negatività delle indagini colturali.

Nel gatto il test sierologico è abbinato all’emocoltura. Quest’ultima rappresenta il gold-standard.

Le categorie maggiormente a rischio per la CDS sono:

  • persone immunocompromesse;
  • bambini;
  • medici veterinari;

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Epulidi, i tumori
del cavo orale


Autore: Antonio Santamaria, Medico Veterinario in Roma


I tumori del cavo orale rappresentano rispettivamente il 6% e il 3% di tutte le neoplasie canine e feline. Tra le neoplasie maggiormente diffuse dei tessuti molli buccali dei canidi troviamo le epulidi. Questo tipo di tumore può svilupparsi nei cani di qualsiasi età, anche se sono generalmente più comuni in quelli di mezza età, oltre i sei anni di vita, e sono più diffusi nelle razze brachicefale o a naso corto.

Si presentano come masse gengivali dure, di grandezza variabile, che si originano dal legamento peridontale, non danno metastasi e sono raggruppati per la loro origine tissutale in:

  • fibromatoso – peduncolati (su un gambo o stelo) e non-ulceranti;
  • ossificante – peduncolati, ma non ulcerati;
  • acantomatoso – localmente invasivi e spesso distruggono l’osso; anche se benigni, sono molto aggressivi.

Nella maggior parte dei casi, il disturbo è determinato da processi infiammatori che si instaurano nel tessuto connettivo della gengiva o del parodonto; tale infiammazione può essere conseguente a traumi, irritazioni locali croniche (es. azione di tartaro e carie) o a terapie conservative o protesiche che presentano margini imprecisi.

Questi insulti irritativo-infiammatori determinano una reazione iperplastica caratterizzata dalla tendenza alla distruzione dei componenti cellulari presenti nella mucosa gengivale, che può estendersi fino a coinvolgere il tessuto osseo sottostante.

Segni clinici e trattamento

Tra i segni clinici e i sintomi maggiormente legati a questa tipologia di neoplasia annoveriamo:

  • massa gonfia lungo il margine gengivale;
  • errato posizionamento dei denti;
  • deformità facciali;
  • scialorrea (eccessiva salivazione);
  • disfagia (difficoltà ad alimentarsi);
  • sanguinamento dalla bocca.

Questi segni inducono il proprietario a rivolgersi al proprio veterinario il quale diagnosticherà il problema con un’attenta ispezione del cavo orale; molto utile in tale sede può essere effettuare una RX del cavo orale per constatare il coinvolgimento/lisi del tessuto osseo sottostante la massa e un campionamento della stessa per avere un’istologia (ossia un esame del tessuto) di conferma.


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La punizione
nell’educazione del gatto


Luca ButiAutore: Luca Buti, Medico Veterinario in Roma


La punizione preferita da noi essere umani, in genere, è la punizione fisica. Bene, nel processo educativo atto a ottenere una buona partnership con il nostro gatto questa non va mai messa in pratica! Infatti, non permette mai di raggiungere i risultati prefissati, anzi spesso crea danni aggiuntivi ai problemi già esistenti. Vediamo di capire il perché. Usando una punizione fisica verso il nostro gatto (dove per fisico intendo una spinta, una sgridata diretta, una leggera pacca sul posteriore, ecc.) per un comportamento del nostro felino che riteniamo non corretto o dannoso, possiamo ottenere due risultati:

  • un aumento della reattività e/o dell’aggressività, cosa assolutamente non desiderata;
  • un comportamento di evitamento e/o fuga.

In parole povere, somministrando una punizione fisica al nostro micio lui risponderà o soffiando e/o aggredendo oppure allontanandosi da noi e nascondendosi. Soffierà e/o aggredirà, però, non contro il comportamento messo in atto, ma contro il somministratore della punizione, e si allontanerà ed eviterà  non quell’azione commessa ma chi punisce, cioè noi. In pratica, in tal modo faremo associare al micio la punizione a noi e non al comportamento adottato, cosa altrettanto indesiderata.

Questo può essere dovuto a diverse cause;

  • in primis, nella stragrande maggioranza dei casi, noi compagni di vita dei gatti non cogliamo “sul fatto” l’autore del “crimine”, quindi il micio non ha la possibilità di associare la punizione al “misfatto” stesso, ma solo ed esclusivamente al somministratore della punizione;
  • oppure, anche questa causa non infrequente, al fatto che quello che noi giudichiamo un comportamento non corretto, in realtà, per un appartenente alla specie “gatto”, è un comportamento assolutamente naturale (ad esempio farsi le unghie sulle poltrone o depositare una preda dilaniata e sanguinolenta sul nostro cuscino).

Come far capire allora al nostro micio che non deve compiere quella determinata azione a noi sgradita? Iniziamo con il dire che non dobbiamo compiere l’errore di ritenere la punizione il contrario della premiazione; in realtà, l’opposto della premiazione è la assenza della premiazione stessa. Quindi, è meglio e più utile creare condizioni sfavorevoli per il gatto a compiere quella determinata azione, se a noi sgradita. Ad esempio, per i mordicchiamenti ripetuti o eccessivi, meglio sottrarre i nostri arti alla sua azione piuttosto che punire, oppure nei continui salti sul tavolo dove stiamo mangiando, meglio porre ostacoli o oggetti in equilibrio precario, che cadano al minimo contatto, o procurare rumori forti e improvvisi, piuttosto che punire. Ancora, nel caso di deposito di prede sul cuscino, comportamento non solo naturale per il micio, ma addirittura segno di grande riconoscimento nei nostri confronti, meglio pulire con indifferenza (quando il gatto non ci vede) piuttosto che sgridare.


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